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Parto per Baku; sono preoccupato per la discordanza di informazioni circa il visto di transito ed eccitato per la nuova destinazione. Completo l’imbarco e salgo nell’aereo, alla fine siamo veramente in pochi e, bellezza delle bellezze, la mia fila è completamente vuota: questo vuol dire che potrò provare a dormire allungandomi sulla fila.

L’aereo parte ed inizia la fase di crociera; mi tolgo la cintura, le scarpe e cerco di allungarmi sui sedili, pregustandomi il sonno ristoratore. Provo a chiuedere gli occhi e subito mi immagino il border control azero che inizia a borbottare circa la mancanza di un visto appropriato per le mie due ore di permanenza sul loro territorio.
L’ora che segue è una serie di maldestri tentativi di inventare una scusa ragionevole per l’immigration officer: “non sapevo che servisse un visto di transito”, “mi hanno detto che ne avrei potuto acquistare uno qui”, “mi scusi, ma se la AirBaltic mi ha detto che non serve, io cosa posso fare oltre che fidarmi?”. Alla fine mi tranquillizzo pensando che se prenderò un decreto di espulsione dall’Azerbaijan non sarà poi la fine del mondo.

Il tempo di tranquillizzarmi e di trovare una posizione comoda. Chiudo di nuovo gli occhi e cerco di trovare lo stato mentale adatto per la mia meritata dormita e … *BAM!* il carrello pieno di cioccolata rumena e sigarette turche si spiaccica contro mia caviglia. Dolore immane e pochissime (ma ben mirate) invocazioni alla Madonna!

Capisco che il mio piede taglia 45 deve essere retratto maggiormente onde evitare l’amputazione nottetempo. Mi pongo in posizione fetale e …. “Ueeeeeeeeeeeeeeeeh!, ueeeeeeeeeeeeeeeeh!” – un bimbo sembra non condividere con me il santo proposito di dormire. Dormire? Come non detto.

Arrivo al piccolo aeroporto di Baku. Da fuori è uno come tanti – dentro? Beh, dentro è tutta un’altra storia.

Come entro nell’androne l’onda d’urto di un tanfo bestiale di sudore colpisce e stende tutti i malcapitati che entrano. Qualche secondo di shock nasale e comincia anche quello visivo: code di gente a fare la coda per il visto (che diamine ci andrà tutta questa gente a fare a Baku?) e, a destra, un piccolo desk che sembra una mischia di rugby: sì, ci avete preso, è esattamente il transfer desk.

Mi faccio un po’ di coraggio e vado lì, pensando che non parlo un’acca di russo, turco o azero. Ci metto dieci buoni minuti a sgomitare tra la gente che formava la mischia – passaporti falsi, biglietti falsi, gente che spariva e che non si è più rivista. Inquietante. Arriva il mio turno: un dipendente prende il mio passaporto, l’altro il biglietto. Il passaporto viene controllato come se la mia faccia fosse quella di un immigrato del Kyrghizistan – per carità, non che sia bello, però che sono occidentale si vede – la foto viene tastata millimetro per millimetro per controllare se fosse stata manomessa. Il tipo mi ritorna il prezioso documento sbiascicando qualcosa, faccio un bel sorriso di circostanza. Il tipo del biglietto invece alza le pupille (ma non la testa) e mi chiede “quanti colli di bagaglio hai?” – rispondo: “due”. Replica: “ma hai pagato per i colli extra?” e ovviamente rispondo di sì. Ci pensa un po’ su. Non è convinto. Mi richiede “ma hai davvero pagato? Non hai una ricevuta?” – Mostro lo sticker che la AirBaltic mi ha dato quando ho acquistato, a solo 15 € lo ammetto, lo sticker per il secondo collo di bagaglio. Come se gli avessi mostrato carta straccia. “Ho capito, ma in fondo quanto hai pagato per il secondo collo?”. Temo di avere capito dove vuole arrivare.

Dopo un po’, io ed un altro manipolo di poveri disgraziati veniamo letteralmente spediti su un ascensore e mandati al piano superiore. Usciamo: nessuno che ci attende, nessuna indicazione. Ci troviamo nella hall delle partenze, praticamente vuota data l’ora. Dei catini disposti sul pavimento raccolgono le perdite d’acqua che arrivano dal soffitto e un paio di poveri cristi dormono sulle panchine. Inutile dire che non c’è posto per sedere.

Il tempo passa. Del tipo con il mio (e non solo) biglietto, nessuna traccia. Cominciamo a guardarci sgomenti – a queste latitudini la certezza dell’inglese come lingua franca svanisce. Passeggio nervoso lungo il corridoio e a un certo punto mi soffermo di fronte alla TV di cortesia: trasmettono “Tempi Moderni” di Chaplin. Un volo sta per partire – nessun display che lo annuncia, solo un povero cristo che dal gate comincia a gridare “Istanbul! Istanbul!”.

Mi faccio una passeggiata nel duty free e cerco di trovare qualcosa di locale da acquistare. Vedere le “palle di Mozart” a Baku fa impressione: mi aspettavo che ci fosse una proposta di di prodotti locali ma sembra invece che la globalizzazione abbia mietuto vittime pure qui. Vado dalla cassiera e chiedo “se volessi comprare qualcosa di azero, cosa potrei acquistare?” mi risponde “vino o vodka”. Ho capito, sarà per la prossima volta, grazie.

Dopo circa due ore, il tipo riappare con i biglietti. Sono centoquarantadollaribaby: venti chili per sette dollari al chilo. Non ho nessuna intenzione di pagare, ovviamente. Avendo un po’ di esperienza di Turchia, comincio a contrattare – so già che non riavrò il biglietto a gratis. “Massimo venti” – ingaggio. Fa l’offeso: “mi vuoi comprare?” – replico “ovvio che no, io ho già pagato il bagaglio, questa è una mancia”. Sorride “centoventi” – ribatto “cinquanta” – cerca di chiudere: “settanta e siamo amici”. “Euro vanno bene? – sì, vanno bene”. Allungo la pecunia (50 euro), infila velocemente la banconota nella giacca e mi rende il biglietto. Dalle lingue che usa con gli altri malcapitati, capisco che siamo stati attentamente selezionati in base alla provenienza (e verosimilmente alla capacità reddituale). Ha incassato almeno 250$ in una notte. Non so come verranno spartiti, ma sono un bel po’ di grana. Credo che succeda solo con i voli notturni.

Protestare e fare valere i propri diritti? Qui da queste parti? Se avete queste idee in testa, non partite neanche. Qui l’unica abilità che conta è negoziare.

Ho il biglietto e mancano due ore al prossimo volo, Baku-Tbilisi. Al volante di una carrettiera del cielo, il nostro comandante e la hostess energumeno dovranno vedersela con gente poco dimestica con l’acqua e passeggeri ubriachi che molestano le donne in aereo. Ma questa, lo sapete, è un altra puntata.

Finalmente a Tbilisi

Non immaginavo che un viaggio all’apparenza di routine si sarebbe trasformato in qualcosa di un po’ più avventuroso. È stato divertente e tanto vale raccontarlo.

Differentemente dalla mia consuetudine, decido di partire con un volo AirBaltic, Dublino->Riga->Tbilisi. Sembra tutto regolare: l’aereo è in orario, lo staff cordiale (e decisamente grazioso), tutto pulito. Se penso che ho acquistato il volo di sola andata per duecento miseri euro tasse incluse, mi sento un privilegiato.
Arrivo a Riga – non è certo l’aeroporto di Istanbul, decisamente più piccolo ma carino. Capeggiano, nel loro giallo nauseante, le indicazioni per i gate della Ryanair e c’è da dire che hanno anche qui un seguito notevole, con code di gente di ogni età ad ogni imbarco.

Soddisfatto della fugace vista dell’aeroporto (ho 4 ore di connection wait), vado al transfer desk per prendere la carta di imbarco e far trasferire il bagaglio. “No signore, siamo spiacenti, il suo volo per Tbilisi è stato cancellato. Può prendere il volo di domani alle 22:40”. Il sudore comincia a scendere lento dalle mie tempie – “mi scusi? ma io devo arrivare a Tbilisi domattina, non dopodomani…” – sorriso di circostanza – non sa che pesci prendere. Ho un flash: “mi scusi, ma in questo momento i miei bagagli dove sono?” – “conveyor 2, signore.”. La guardo con fare cagnesco, sa che ritornerò.

Mi precipito al passport check e mi ricordo di quale fortuna ho che siano nella EU ora; se non lo fosse stata avrei pure avuto problemi con il visto. Tutto fila liscio e raccolgo i bagagli, dopodichè vado al customer point della Air Baltic.

Devo aprire una parentesi sul customer point AirBaltic. Se siete all’aeroporto di Riga e ad un tratto credete di essere in paradiso circondato da donne bionde alte 1.80 con visi angelici, sappiate che siete arrivati al customer point AirBaltic.

Rispiego il problema e mi rispondono, davvero in un ottimo inglese, di essere spiacenti ma di non avere un altro volo per Tbilisi in giornata. Ho un secondo flash: “mi scusi, ma non potrei arrivare a Tbilisi via Baku o Yerevan? Non avete, che so, Riga-Yerevan-Tbilisi o Riga-Baku-Tbilisi?”. Il sorriso mi fa capire che l’idea sembra piacerle e digita velocemente uno di quei criptici comandi tipici dei terminali aeroportuali (no, Windows non è ancora approdato negli aeroporti, per fortuna!). Mi guarda con lo sguardo di chi ha una grande notizia – “si, c’è un volo alle 23:50 per Baku e un volo domestico (?) alle 7:40 da Baku per Tbilisi. Arriverà a Tbilisi alle 8.00, solo cinque (!) ore più tardi.”.

“Ok, va bene, lo prendo. Ma a Baku ho bisogno di un visto di transito?”. Questa è una di quelle volte che ringrazio il Padreterno di avermi fatto viaggiare e di conseguenza di avermi fatto sapere che esiste un visto di transito. Il sorriso dell’operatrice mostra tutto il suo imbarazzo – avrebbe dovuto verificare lei, non aspettare che il cliente lo chiedesse.
Questa apparentemente semplice domanda scatena vivaci discussioni con i colleghi e una fitta serie di telefonate modello operatore di borsa. Passa talmente tanto tempo che decido di telefonare al massimo esperto di voli, ovvero mio fratello. Alla fine giunge il responso, “no signore, non le serve un visto di transito.” – fantastico! Chiedo quant’è la differenza da pagare: “niente signore, è stato un nostro problema e questo cambio è gratis.”. Almeno una buona notizia! Penso a cosa sarebbe successo con una Ryanair qualsiasi.

Corro al check-in ed imbarco tutto, dal momento che tutto ciò che volevo era sbarazzarmi di quei 40kg di valigie. Check-in effettuato, mi richiama mio fratello – “ti serve un visto di transito ma sembra tu lo possa acquistare a Baku. Ti servono però due fototessera e 60$.”. Non ho dollari e tantomeno le foto. “Tutto apposto, parto e vedo cosa succede lì” – mi risponde – “ma sei pazzo?” – a cui replico – “forse, ma non ho scelta. Grazie!”.

Tutto apposto quindi. Posso chiamare la mia compagna ed avvertirla del ritardo – poteva andare molto peggio. Non sapevo però cosa sarebbe diventato il viaggio da qui in poi. Ma questo nella prossima puntata.

Perhaps I am taking the subject too personally, but I feel disturbed by the new SpringSource’s update policy.

For those who don’t know, how does it work? I will try to explain – SpringSource will develop and still make the source code available; they will also incorporate and render publicly available all the fixes. Where’s the catch then? The baselines. SpringSource will tag stable baselines for the first three months from the release of a new major version (e.g. 2.0, 2.5, etc.); after that, the next tags will be available only to paying customers. The next available tag for open source users will be the next major release.

I am not debating the objective of Spring Source to make money out from their flagship product. I am instead debating a number of other issues that arise from this:

  • Changing the licensing terms on the run is, let me say, unfair. Either a product is open source, either it is not. If it is, source code and tags must still be available. There are a lot of other ways of making money with enterprises: extra features available to paying customers only, priority support, customization, and possibly many others. Restricting a license is like a stab in the back – they let the cows pasturing in their field and then they lock them within the fence.
  • This episode stacks up to similar cases and is raising understandable doubts over open source adoption by small businesses. If enterprises have deep enough pockets to cater for an additional license, small companies with tight budgets may suffer from an unexpected cost for a framework that, one week before, was totally available for free.
  • Other products / frameworks – what I said in the previous point might also create a valuable precedent for all those products currently released as open source but actually developed by real businesses: Alfresco, Liferay, GWT, Guice, etc. – if Spring Source’s model will succeed, we shall expect more of this.
  • Raising an issue and problem determination will become a nightmare: with what “baseline” of Spring did the user encounter the problem? Were all the SVN commits applied?
  • Spring ecosystem: there are other products that are heavily relying up on Spring, CXF and Liferay just to name a couple. How will this new policy affect their development? How shall they keep in sync with Spring tags? Shall they package their own release? Or what else?

I am fairly concerned about what happened. Besides any consideration about Spring (I used it only for IOC and transaction management), the consequences of this highly debatable move can be disastrous. I can only manifest my disapproval for an unfair choice that can be detrimental for the whole open source community.

I will stare at the window and see the development. In the meantime, I will have a look to Tapestry 5’s and Guice IOC containers. I am sure they are providing most of the features for which Spring has been so much followed and praised.

il peso della mia vita

Duecentoquaranta. Questo freddo numero rappresenta sinteticamente la mia vita – il peso di tutto quello che mi porterò via questa settimana, destinazione Italia. La mia vita è un susseguirsi di diete dimagranti: sono abitato ad avere e a perdere – e questo periodo è decisamente il periodo più magro. Per chi non lo sapesse, o per chi magari ci sta pensando su (no, non penso a te, giuro!), sappiate che separarsi costa. Senza considerare quello che dovrò sborsare al divorzio.

Sono esausto. Senza Ivano non avrei potuto finire così velocemente. C’è solo un problema: nella camera c’è una insostenibile puzza di cartone e scotch tale che per sopravvivere dovrò dormire con le finestre aperte.

Domani (ora sono distrutto) dirò la mia sul cambio di licenza di Spring e del perchè ritengo sia una pessima idea.

Buonanotte.

Tbilisi mon amour

È un venerdì sera come tanti altri, qui a Dublino. La gente sembra quasi avere l’obbligo morale di divertirsi – passano la serata a bere e quando escono dagli affollatissimi pub del centro intonano slogan da stadio o tentano di ricomporre con fatica rime di qualche canzone di successo. Bere qui è l’unico modo per rompere le rigide convenzioni sociali e lasciarsi andare un po’ liberamente – per sbloccarsi nell’approccio con una ragazza o più semplicemente per tirarsi su il morale dopo una noiosa settimana di lavoro.

La mia quasi ex casa si trova vicino ad un noto ospedale privato – come potrete immaginare, coloro che si sono divertiti spesso non hanno messo in conto che poi devono tornare a casa. La cosa non è difficile quando si tratta di prendere un taxi; è una bella sfida, spesso culminante in un bell’incidente stradale, quando ci si prova da soli. E ricordo diversi venerdì notte a contare, attraverso le sirene delle ambulanze, quanti di questi incoscienti ci provano senza successo.

Domani mattina è giorno di pacchi. Sì, è ora di estrarre gli abiti dagli armadi, imballare la console ed il televisore, il piumino ed i cuscini, la stampante, e quant’altro scoprirò di avere comprato e probabilmente mai utilizzato in questi due anni. Sarà una giornata di ricordi – alcuni anche precedenti a questa esperienza – e conoscendo quanto sono malinconico, prevedo già umore nero.

Fortunatamente, l’impacchettare ed il chiudere vuol dire che sto per tornare a Tbilisi! Non potete immaginare quale felicità: riabbracciare Maria dopo quasi due mesi di separazione, i suoi genitori, rivedere gente felice di incontrarti e con la quale si riesce a parlare di tutto, dalla ricetta di cucina alla filosofia. Ma soprattutto, toccare per la prima volta il pancino! 🙂

È la prima volta che torno in Georgia dal conflitto. Nonostante Tbilisi non sia stata impattata dagli scontri, sono convinto che troverò una città diversa, più nervosa e più sospettosa. I caucasici sono gente molto cordiale e rilassata ma allo stesso tempo particolarmente polemica. Polemizzano su tutto, senza poi trovare mai una soluzione concreta – da questo punto di vista mi ricordano tanto gli italiani.

Ora si sentono privati – a torto o a ragione non spetta a me dirlo – di due territori che si sono conquistati con il sangue di coloro che ha perso la vita per l’indipendenza georgiana, prima nel 1989 e poi nel 1991.
In TV non parlano d’altro. Il telegiornale è un carosello di politici, ognuno con le sue affermazioni e le sue polemiche contro la Russia. In Georgia si può morire di chiacchiere, e tutte queste polemiche non fanno che alimentare le chiacchiere, che a loro volta alimentano nuove polemiche… beh, mi avete capito.
C’è ora da vedere se al prezzo che hanno pagato corrisponderà la contropartita: l’ingresso della Georgia nella NATO. È da almeno un anno che le emittenti georgiane trasmettono una campagna pubblicitaria per convincere i cittadini che la NATO è la loro “assicurazione sulla vita”. Mai tale motivazione fu più azzeccata.

Beh, allora forse è il caso di raccogliere le energie per domani. Nell’ordine:

  • Acquistare scatole da imballo da Argos
  • Acquistare scotch da pacchi robusto
  • Cooptare Ivano come schiavo
  • Impacchettare il possibile

Ah, per curiosità – sapete quanto vuole una società di traslochi per spostare venti pacchi da Dublino a Roma? 1700 Euro + IVA 21% ed assicurazione. Non credo che la roba che ho qui valga così tanto. Vuoi vedere che butto tutto via?

prima di partire…

Mi dispiace di non avervi potuto rendere partecipi della meravigliosa bistecca che mi sono cucinato ieri. Una bistecca di puro manzo irlandese, lasciata a frollare per ventuno giorni, sottovuoto. Ho aperto l’involucro con fare cerimonioso, gli ho dato una massaggiata con dell’olio di olive, aggiunto del sale grosso e del pepe bianco ed infine puntellata con del rosmarino fresco. Dopo averla fatta riposare qualche minuto, l’ho collocata sulla piastra ardente.
Il sale grosso si è sciolto ed è penetrato nella carne, mentre l’olio ha crostificato i due lati della bistecca.

Risultato: non ci sono parole che possano descrivere il turbinio di emozioni che giungevano dal palato. Marbled and mooing! Memorabile! Ho accostato uno Shiraz di Wolf Blass – un perfetto amico di una bella carne rossa.

Sono successe molte cose in questi giorni.

Il mio framework di mappatura SQL-SDO funziona che è una meraviglia. L’integrazione del logging con WebSphere mi permette di cambiare la logorroicità (credo che verbosità sia un neologismo, ora non ho voglia di controllare) in tempo reale, senza dovere riavviare l’applicazione – o peggio – l’application server. Le prestazioni sembrano davvero essere all’altezza della situazione, se si fa eccezione per la fase di creazione del DataObject tramite BOFactory. Se non capite cosa sto dicendo, vuol dire che non vi interessa.

L’attività di stress testing delle nostre stored procedures su z/OS hanno invece segnato una battuta di arresto: o abbiamo una LPAR in una macchina decisamente sottodimensinata o la configurazione del DB è lungi dall’essere ottimale. Sto ottenendo solo 120 transazioni al secondo, usando JMeter sull’USS della nostra partizione (che non è quindi in-process, ma quantomeno non ci sono giri di rete). Lo stesso caso di test, eseguito su una mortale macchina wintel, segna valori oscillanti tra le 600 e le 1100 tpm. Sconcertato.

Ho trovato dei nuovi inquilini per la casa! Ilaria ed Alessandro. Sono davvero due ragazzi simpatici, sono felice di lasciare casa a loro. In questo piccolo bilocale dublinese, 1250 euro al mese in centro, c’è un’aura positiva. È dove abbiamo passato gli ultimi giorni che abbiamo passato insieme, io e Maria, prima di scoprire che aspettasse un bimbo. Spero che porti fortuna anche a loro anche se, avendo solo 27 anni, forse è un po’ presto per loro. Gli auguro ogni bene.

Se venite ad abitare a Dublino e per caso prendete una casa in affitto, fate attenzione – ci sono due tipi di contratto: part 4 e fixed term. Il part 4 è qualcosa di analogo all’italiano 4+4 mentre il fixed-term è più simile al nostro uso foresteria. Le differenze però non sono banali:

  • Nel contratto part 4, il periodo di preavviso per la disdetta è direttamente proprozionale al tempo che avete vissuto nella casa; il minimo è 4 settimane e sale con il tempo.
  • La disdetta va sempre fatta per iscritto – se non lo fate ed avete una disputa, la tenancy board può ritenere valida la vostra rescissione contrattuale perchè non ha rispettato i termini; no, una e-mail non basta.
  • Veniamo ora al contratto più pericoloso e più diffuso – il fixed term. Sebbene le caratteristiche contrattuali lo facciano sembrare appetibile (un anno rinnovabile, solo 4 settimane di preavviso), nasconde un’insidia: l’onus (l’onere) del pagamento. Il contratto fixed term infatti, essendo a durata fissa, obbliga il tenant a pagare l’intera somma indipendentemente che la proprietà venga usata o meno. L’unica eccezione prevista dal Tenancy Act 2004 (al quale vi rimando per maggiori informazioni) è che – qualora il contratto preveda il subaffitto – il tenant ne trovi un altro che lo sostituisca. Non mi è chiaro quali siano le responsabilità del tenant precedente in caso di un breach del contratto (mancato pagamento, danneggiamento della proprietà).
    Succede poi, nella prassi comune, che il tenant che non riesca a trovare un sostituto perda la caparra e sia liberato da ogni altro gravame. Ma attenti – la legge non recita così.

Confesso che inizio a provare una certa malinconia. Mancano 12 giorni alla partenza e tornare in Italia per un anno sarà molto difficile. Non sarà il paradiso che molti turisti italiani credono che sia, ma in Irlanda non si sta malissimo. Mi mancano solo le attività culturali, che non sembrano particolarmente gradite dalla popolazione locale. Quando avremo sistemato tutto con Maria ci potremo forse permettere degli short breaks a Londra e Parigi; a quel punto un posto varrà l’altro.

Non ho tempo per la malinconia – devo ancora:

  • Vendere l’auto;
  • Impacchettare tutto e spedire;
  • Fare le volture di casa;
  • Andare a prendere Maria che ora è a casa dei suoi.

L’immagine è stata presa da http://stephen60.wordpress.com

La giornata comincia bene: mi sveglio tardi, mi incontro con Ivano e ce ne andiamo a mangiare un po’ di sushi allo Yamamori sui quays. Il locale è davvero carino – da fuori sembra minuscolo, dentro è davvero spazioso.

Sazio ed appagato torno a casa a dare una bella pulita di fondo – stasera vengono due ragazzi a vedere l’appartamento, magari gli interessa. Sono quelle forzature che mi aiutano a liberarmi della mia atavica pigrizia. Risultato: casa è un gioiellino – meriterebbe una foto, Maria sarebbe felice di me 🙂

Se non fosse per la solita cornice meteorologica, una giornata da ricordare. Ed invece no. Mi siedo, mi bevo un bicchiere di Fanta, dò un’occhiata ai titoli dei giornali. In mezzo alle troppetante dicerie su Alitalia leggo due righe riguardo al beneamato papa Benedetto XIV:Monito del Papa alla Chiesa francese “Non benedite le unioni illegittime”.

“Ma va là” – penso io – “ce l’avrà con gli omosessuali, ecc.”. Incuriosito, leggo l’articolo. Niente comunione a chi si risposa. E i matrimoni di chi si risposa sono da considerarsi “illegittimi”.

Illegittimo: “che non ha le condizioni imposte dalla legge; ingiusto; irragionevole”.

Ho bisogno di Coca Cola. Me la bevo e penso: se io mi fidanzo con una donna per 7 anni e mi sposo per altri quattro e viviamo come se non fossimo sposati, quello è ingiusto; se mia moglie non vuole avere figli perchè non vuole fare felici i miei genitori, questo è irragionevole. Se trovo una donna con cui ho un rapporto maturo e serio e che non mi fa mancare niente sul lato affettivo e sessuale, questo è giusto e ragionevole.

Se questa donna mi da anche un figlio, questo rapporto non è solo giusto e ragionevole: è pure SACRO. Non c’è nessun sacrilegio che tenga. Ho il timore che queste regole servano solo a tenere gli indicatori statistici (leggi: numero di divorzi) sotto controllo. In altre parole, una questione di forma più che di sostanza.

Se vi interessasse saperlo: credo nella famiglia e nel matrimonio. E ho tutta l’intenzione di risposarmi. Non ho invece nessuna intenzione di martirizzarmi per tutta la vita accanto ad una persona che non mi ama. Quando si è felici si è molto più disposti ad aiutare il prossimo. O sono impazzito?

peperoni ripieni

Se vi piace mangiare, i peperoni ripieni al kebab sono una delizia che dovete provare. Ci vuole al massimo mezz’ora per prepararli ed il risultato è assicurato.

L’unica difficoltà è quella di trovare le spezie: se nei paesi anglosassoni le spezie sono facilmente reperibili in un qualsiasi negozio etnico, in Italia sembra un po’ più difficile.

Mezzo chilo di carne fa 4 peperoni delle dimensioni in foto (non particolarmente grandi, come potete osservare).

Ingredienti del ripieno:

  • Mezzo chilo di carne di manzo;
  • 1 cipolla bianca, grande;
  • 1/2 cucchiaino di cumino in polvere;
  • 1 cucchiaino di coriandolo in polvere;
  • 1 o 2 cucchiai di aceto di vino;
  • 1/2 bicchiere d’acqua;
  • olio q.b.;
  • sale q.b.;
  • pepe q.b.

Tagliate la testa ai peperoni, svuotateli e privateli dei semi; cospargete i peperoni di sale ed olio ed adagiateli in una teglia. Infornate e tirateli fuori appena is sono ammorbiditi.

Nel mentre, unite l’aceto alla carne macinata e massaggiatela. L’aceto la renderà più morbida e toglierà un po’ della puzza di flesh tipica del macinato.

Nel mentre la fate riposare, usate un robot da cucina, una mezzaluna, le vostre ormai vecchie lezioni di karate per sminuzzare finemente la cipolla. Una volta fatto, unite la cipolla, il cumino, il coriandolo, il sale (secondo gusto), il pepe (anche questo secondo gusto) e l’acqua e mischiate energicamente fino a fare una composto compatto; non fate perdere l’acqua altrimenti vi diventa secco in forno.

Prendete i peperoni ora morbidi, riempiteli (fate attenzione alla temperatura) con il composto e re-infornate per altri 20 minuti.

Enjoy!

Confesso che per molto tempo ho nutrito forti dubbi riguardo all’API java.util.logging del JDK. Comparata a quella di log4j o a quella di slf4j mi sembrava particolarmente rigida. In particolare,  il fatto di dovere passare la posizione del file di configurazione del log via una proprietà di ambiente o tramite switch del JRE (sic!) mi sembrava davvero troppo.

Dopo un po’ di lettura dei javadoc, scopro che è invece possibile leggere il file di configurazione da un InputStream! Sebbene molti penseranno che questo sia un tipico caso di RTFM… invece non è così. Parlando con diversi sviluppatori in giro per il mondo, sono stato ancora più sorpreso di quanto questa API sia sconosciuta ai più.

Ad ogni modo, se vi interessa il codice, eccolo qui:

InputStream logcfg = Thread.currentThread().getContextClassLoader().getResourceAsStream(“logging-test.properties”);
LogManager.getLogManager().readConfiguration(logcfg);
logcfg.close();

Facile facile.

cominciamo con ordine

Mi sono separato dopo dodici anni di relazione di cui quattro di matrimonio e questo diario forse si chiederà perchè. È presto detto – purtroppo è stato un matrimonio funestato dalla costante ingerenza dei genitori di lei e dai problemi nella mia famiglia di origine; ho sofferto anni di umiliazioni, sono stato additato come inadeguato per la loro figlia ed incapace di darle un futuro (se solo sapessi perchè?). Alla fine, come un piccolo giunco nel mare in tempesta, non ha retto alle onde. Sebbene siamo stati insieme dodici anni, ho capito che è solo il matrimonio (o la convivenza in generale) a forgiare la coppia. La nostra era davvero immatura per affrontare quello che ha affrontato. E non ha retto.

Confesso a questo blog che il fallimento del mio matrimonio è sicuramente la pagina più dolorosa della mia vita. Non avrei mai voluto farlo essenzialmente per due motivi:il primo è che nonostante le cose non siano andate bene tra di noi, non avrei mai voluto vedere mia (ex-)moglie soffrire come sta soffrendo. Il secondo motivo è che ho sempre creduto che il matrimonio nella vita dovesse essere solo uno.

Quando scelsi di rompere il nostro matrimonio, ho scelto – per una volta nella mia vita – di volermi bene. Le voglio ancora un mondo di bene ma non posso distruggere me stesso per amore suo. Mi ha promesso che sarebbe cambiata ma non credo che le persone possano cambiare e soprattutto non voglio che cambino. I suoi genitori saranno sempre lì, i nostri problemi saranno sempre lì.

Non l’ho dimenticata e non la voglio dimenticare. Mi sarebbe piaciuto rimanere in amicizia, ma ho capito che sto alimentando solo illusioni. Mi sarebbe piaciuto avere dei figli – è quello che ho sognato per dodici anni. Mi sarebbe piacuto che fosse stato il frutto della nostra vita insieme ma non è stato così. È davvero un grosso peccato.

Ora ho voltato pagina. La mia compagna è una persona speciale. Semplice, complice, intelligente e soprattutto mi accetta per quello che sono. Ha conosciuto la sofferenza e questo l’ha resa matura. La sofferenza ha fatto crescere anche me. Credo proprio che sia la volta buona 🙂